Ero in classe, dovevo fare le interrogazioni di storia. In classe con me c'era un osservatore-tirocinante, che in contemporanea (cose che succedono nei sogni) era anche un mio collega dell'università non meglio specificato. I ragazzi erano in piedi, seduti, con strani grembiuli marroni. Chiedevo di sedersi, di fare silenzio, spiegavo che dovevo fare le interrogazioni di storia. Niente da fare: la confusione continuava e la mia voce era sempre più roca e sottile, tentavo di gridare ma usciva solo una vocina flebile. Guardavo il mio tirocinante-osservatore-collega, che non faceva proprio nulla, mi guardava e basta, nessun aiuto: dovevo cavarmela da sola.
Come sempre i sogni e gli incubi non hanno un finale, mi sono svegliata così con questa sensazione di impotenza e di voce roca. E con le interrogazioni di storia da fare.
Non vi stupite: i miei sogni sono spesso facilissimi da interpretare.
L'incubo dell'insegnante è parlare e non essere ascoltati, è provare a farsi sentire, ad andare avanti e non riuscirci in nessun modo. E' un incubo nel quale a volte cadiamo, o siamo caduti, nella vita reale.
A me è successo a inizio carriera.
Ho cominciato a fare la maestra perché ho vinto un concorso per fare la maestra, quindi ho avuto la mia prima classe senza aver mai avuto un'ora di supplenza. Certo avevo fatto 40 ore di tirocinio per poter fare la maturità magistrale da privatista, come secondo titolo di scuola superiore. Di quelle 40 ore ho alcuni ricordi indelebili: la scoperta che esistono ancora anche in città bambini che arrivano alle elementari senza aver fatto l'asilo e sapendo parlare solo il dialetto (erano due in quella classe); l'indignazione per l'attività motoria fatta dalla titolare della classe a base di corsa in fila per 3 a ritmo di tamburello (ero un'istruttrice con tesserino CONI!); la mia personale soddisfazione per aver insegnato all'ultimo degli ultimi a disegnare una stella... che prezioso era diventato quel foglio di carta!
Nessuno ti spiega mai come tenere una classe. Ho continuato a studiare, dopo, ho seguito il corso neoassunti nel mio primo anno di servizio, ho conosciuto docenti e frequentanti scuole di specializzazione e abilitazione per l'insegnamento, io stessa vi ho insegnato, ho seguito corsi di aggiornamento. Nessuno mi ha mai spiegato come si tiene una classe, come si fa a far parte di quegli insegnanti che quando entrano in classe, senza alzare la voce, fanno sedere tutti gli alunni, si fanno ascoltare quando parlano, gestiscono con ordine le discussioni di gruppo. Sorridono.
Visto che nessuno me lo aveva spiegato probabilmente non lo sapevo fare. Non voglio dire che tutte le mie giornate erano come nell'incubo di questa notte, ma molti, molti interminabili momenti. Molte, molte volte nelle quali, nei miei primi anni di insegnamento, ho gridato, ho battuto le mani, ho sbattuto barattoli sulla cattedra, ho sbattuto la porta... tutto per riuscire a farmi sentire. Sono reazioni irrazionali, immediate, spontanee, volevo semplicemente dire "IO INSEGNO". La prima cosa che ti viene da fare è gridare, subito cadi in una spirale: dopo che hai gridato devi gridare più forte e dopo che hai gridato più forte devi sbattere qualche cosa perché la tua voce è finita. La voce è un altro grosso problema dell'insegnante inesperto: devi tenere un volume sempre piuttosto sostenuto per farti sentire da 25 persone in una grande aula 4, 5 o 6 ore al giorno, quindi se non la sai usare (anche se non gridi!) la voce se ne va. Ricordo che mia madre mi aveva comprato le pastiglie per i cantati. Non siamo puoi tanto diversi dagli attori...
Ricordo che questa frustrazione, per fortuna, non mi si è mai trasformata in ostilità nei confronti dei miei alunni, quanto piuttosto in disgusto verso me stessa, verso questa bestia rabbiosa che usciva fuori da me, verso questa me brutta e cattiva, che non riusciva a trovare un modo più dignitoso per farsi ascoltare e per fare, finalmente, il suo mestiere. Ricordo che mi sentivo male, stavo male, mi ammalavo di sinusite, di bronchite, di gastrite, mi prendevo i pidocchi. E stare a casa ammalati era un sollievo: potevo stare nel silenzio, potevo studiare.
Naturalmente cercavo anche di fare del mio meglio, di interessare i miei studenti, di essere disponibile con i genitori, di capire perché quel bambino prendeva a calci in pancia i compagni, perché quell'altro aveva difficoltà ad imparare, come poter risolvere le situazioni difficili. Ma ho avuto per anni la sensazione di trovarmi al fronte, e di non essere preparata per la dura vita del soldato di prima linea. D'altro canto la mia carriera era nata all'incontrario con una discesa clamorosa, come non sentire l'impatto dell'atterraggio? Prima di arrivare alla prima linea ero già stata nelle stanze dei generali: avevo già tenuto dei corsi all'università, pubblicato, parlato a conferenze internazionali, mi ero già seduta in commissioni d'esame e di laurea. Ma il lavoro stabile e fisso che avevo vinto si trovava al fronte. Non mi mancava il riconoscimento dell'importanza sociale, culturale, etica, del lavoro che ero chiamata a fare, mi mancava la consapevolezza delle mie forze o, meglio, vedevo che le mie forze non erano affatto adeguate al compito.
Ho cercato una via di scampo. Volevo tenacemente sopravvivere al mio lavoro, volevo tenacemente essere una persona sana, volevo tenacemente lavorare con soddisfazione. Sono scappata con una conversione a U di nuovo verso l'università, una via di fuga da quella che vedevo come una condanna alla prigione per i futuri 35 anni. Sono stata via 3 anni solari esatti: 3 anni di dottorato di ricerca. Naturalmente questo ha suscitato le ire eterne dei genitori e del preside.
Oggi, che sono passati altri 3 anni dalla fine di quel dottorato, posso dire che ho fatto benissimo. Ho avuto 3 anni per studiare, per approfondire la mia formazione, anche come insegnante, per scrivere, sperimentare, ricercare, conoscere e fare esperienze, ma la cosa più importante è che ho avuto 3 anni per crescere.
La mia nuova esperienza l'avete letta nel centinaio di racconti che vi ho fatto in questo blog.
Non so se la classe che ho incontrato al mio rientro a scuola era migliore di quella che avevo lasciato, o se erano solo un po' più grandi di età, e mi terrorizza il pensiero che il prossimo anno dovrò ricominciare da zero con un'altra prima. Ho paura che quell'incubo ritorni.
Cerco però di tenere a mente, con un "tatuaggio mentale" come dico ai miei bambini, una frase di Don Milani che ho letto qualche mese fa:
"Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola".
(Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, cit. da Mario Lodi, Il paese sbagliato, To, Einaudi, 1970, p. 26)
Forse in questi anni, dopo essermi chiesta a lungo come bisognasse fare, ho cominciato a provare ad essere.