giovedì 26 aprile 2012

L'incubo dell'insegnante. Ancora a proposito di me... alle origini.

Ero in classe, dovevo fare le interrogazioni di storia. In classe con me c'era un osservatore-tirocinante, che in contemporanea (cose che succedono nei sogni) era anche un mio collega dell'università non meglio specificato. I ragazzi erano in piedi, seduti, con strani grembiuli marroni. Chiedevo di sedersi, di fare silenzio, spiegavo che dovevo fare le interrogazioni di storia. Niente da fare: la confusione continuava e la mia voce era sempre più roca e sottile, tentavo di gridare ma usciva solo una vocina flebile. Guardavo il mio tirocinante-osservatore-collega, che non faceva proprio nulla, mi guardava e basta, nessun aiuto: dovevo cavarmela da sola. 
Come sempre i sogni e gli incubi non hanno un finale, mi sono svegliata così con questa sensazione di impotenza e di voce roca. E con le interrogazioni di storia da fare.
Non vi stupite: i miei sogni sono spesso facilissimi da interpretare.

L'incubo dell'insegnante è parlare e non essere ascoltati, è provare a farsi sentire, ad andare avanti e non riuscirci in nessun modo. E' un incubo nel quale a volte cadiamo, o siamo caduti, nella vita reale.
A me è successo a inizio carriera. 
Ho cominciato a fare la maestra perché ho vinto un concorso per fare la maestra, quindi ho avuto la mia prima classe senza aver mai avuto un'ora di supplenza. Certo avevo fatto 40 ore di tirocinio per poter fare la maturità magistrale da privatista, come secondo titolo di scuola superiore. Di quelle 40 ore ho alcuni ricordi indelebili: la scoperta che esistono ancora anche in città bambini che arrivano alle elementari senza aver fatto l'asilo e sapendo parlare solo il dialetto (erano due in quella classe); l'indignazione per l'attività motoria fatta dalla titolare della classe a base di corsa in fila per 3 a ritmo di tamburello (ero un'istruttrice con tesserino CONI!); la mia personale soddisfazione per aver insegnato all'ultimo degli ultimi a disegnare una stella... che prezioso era diventato quel foglio di carta!

Nessuno ti spiega mai come tenere una classe. Ho continuato a studiare, dopo, ho seguito il corso neoassunti nel mio primo anno di servizio, ho conosciuto docenti e frequentanti scuole di specializzazione e abilitazione per l'insegnamento, io stessa vi ho insegnato, ho seguito corsi di aggiornamento. Nessuno mi ha mai spiegato come si tiene una classe, come si fa a far parte di quegli insegnanti che quando entrano in classe, senza alzare la voce, fanno sedere tutti gli alunni, si fanno ascoltare quando parlano, gestiscono con ordine le discussioni di gruppo. Sorridono.
Visto che nessuno me lo aveva spiegato probabilmente non lo sapevo fare. Non voglio dire che tutte le mie giornate erano come nell'incubo di questa notte, ma molti, molti interminabili momenti. Molte, molte volte nelle quali, nei miei primi anni di insegnamento, ho gridato, ho battuto le mani, ho sbattuto barattoli sulla cattedra, ho sbattuto la porta... tutto per riuscire a farmi sentire. Sono reazioni irrazionali, immediate, spontanee, volevo semplicemente dire "IO INSEGNO". La prima cosa che ti viene da fare è gridare, subito  cadi in una spirale: dopo che hai gridato devi gridare più forte e dopo che hai gridato più forte devi sbattere qualche cosa perché la tua voce è finita. La voce è un altro grosso problema dell'insegnante inesperto: devi tenere un volume sempre piuttosto sostenuto per farti sentire da 25 persone in una grande aula 4, 5 o 6 ore al giorno, quindi se non la sai usare (anche se non gridi!) la voce se ne va. Ricordo che mia madre mi aveva comprato le pastiglie per i cantati. Non siamo puoi tanto diversi dagli attori...
Ricordo che questa frustrazione, per fortuna, non mi si è mai trasformata in ostilità nei confronti dei miei alunni, quanto piuttosto in disgusto verso me stessa, verso questa bestia rabbiosa che usciva fuori da me, verso questa me brutta e cattiva, che non riusciva a trovare un modo più dignitoso per farsi ascoltare e per fare, finalmente, il suo mestiere. Ricordo che mi sentivo male, stavo male, mi ammalavo di sinusite, di bronchite, di gastrite, mi prendevo i pidocchi. E stare a casa ammalati era un sollievo: potevo stare nel silenzio, potevo studiare.
Naturalmente cercavo anche di fare del mio meglio, di interessare i miei studenti, di essere disponibile con i genitori, di capire perché quel bambino prendeva a calci in pancia i compagni, perché quell'altro aveva difficoltà ad imparare, come poter risolvere le situazioni difficili. Ma ho avuto per anni la sensazione di trovarmi al fronte, e di non essere preparata per la dura vita del soldato di prima linea. D'altro canto la mia carriera era nata all'incontrario con una discesa clamorosa, come non sentire l'impatto dell'atterraggio? Prima di arrivare alla prima linea ero già stata nelle stanze dei generali: avevo già tenuto dei corsi all'università, pubblicato, parlato a conferenze internazionali, mi ero già seduta in commissioni d'esame e di laurea. Ma il lavoro stabile e fisso che avevo vinto si trovava al fronte. Non mi mancava il riconoscimento dell'importanza sociale, culturale, etica, del lavoro che ero chiamata a fare, mi mancava la consapevolezza delle mie forze o, meglio, vedevo che le mie forze non erano affatto adeguate al compito.  
Ho cercato una via di scampo. Volevo tenacemente sopravvivere al mio lavoro, volevo tenacemente essere una persona sana, volevo tenacemente lavorare con soddisfazione. Sono scappata con una conversione a U di nuovo verso l'università, una via di fuga da quella che vedevo come una condanna alla prigione per i futuri 35 anni. Sono stata via 3 anni solari esatti: 3 anni di dottorato di ricerca. Naturalmente questo ha suscitato le ire eterne dei genitori e del preside. 
Oggi, che sono passati altri 3 anni dalla fine di quel dottorato, posso dire che ho fatto benissimo. Ho avuto 3 anni per studiare, per approfondire la mia formazione, anche come insegnante, per scrivere, sperimentare, ricercare, conoscere e fare esperienze, ma la cosa più importante è che ho avuto 3 anni per crescere.

La mia nuova esperienza l'avete letta nel centinaio di racconti che vi ho fatto in questo blog.
Non so se la classe che ho incontrato al mio rientro a scuola era migliore di quella che avevo lasciato, o se erano solo un po' più grandi di età, e mi terrorizza il pensiero che il prossimo anno dovrò ricominciare da zero con un'altra prima. Ho paura che quell'incubo ritorni. 
Cerco però di tenere a mente, con un "tatuaggio mentale" come dico ai miei bambini, una frase di Don Milani che ho letto qualche mese fa:
"Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola".
(Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, cit. da Mario Lodi, Il paese sbagliato, To, Einaudi, 1970, p. 26)

Forse in questi anni, dopo essermi chiesta a lungo come bisognasse fare, ho cominciato a provare ad essere.

lunedì 23 aprile 2012

Piccoli lombrosiani

In questi giorni dobbiamo fare l'articolo di giornale. Naturalmente sul libro ci sono delle pagine che spiegano dove si posizionano gli articoli in prima pagina, come si chiamano le varie parti del testo e via dicendo. Naturalmente ho fatto portare i quotidiani in classe.
Ore 8.05 tutti sfogliano i giornali come fossimo nel baretto dell'azienda. Un piccolo gruppetto commenta assieme le prime pagine:
- Ah, ma guardate questo che faccia!
- sì è vero!
- Ma come si fa a fidarsi di uno che ha la faccia così?!
- Ma guarda che faccia!
(ridono)
Notizia: "Belsito restituisce i soldi e i diamanti".

(chi volesse esprimere la propria opinione in merito può vedere queste foto)

venerdì 13 aprile 2012

Salvare capra e cavoli

L'altro giorno è arrivata una circolare che sembrava una minaccia: il servizio di pulizie con la ditta esterna è stato sospeso, per mancanza di fondi, da un giorno all'altro, di conseguenza i bidelli devono dedicarsi alle pulizie invece che al resto. La circolare ci spiega, in soldoni, che dobbiamo arrangiarci: lasciare le aule pulite, non mandare bambini in bidelleria, non richiedere la presenza dei bidelli nelle classi per sorveglianza. Parlando con i bidelli è emerso che non avrebbero avuto più personale o possibilità di avere dei turni straordinari retribuiti. La segreteria è già stata sguarnita a inizio anno. Ricordo, a chi non lo sapesse o non lo ricordasse, che la Mariastella aveva abolito le compresenze di noi insegnanti.
Il risultato di tutto ciò è che, come giustamente mi ha fatto notare mia madre, quando la famiglia consegna il bambino a scuola non lo consegna più a un'istituzione, ma lo consegna alla responsabilità esclusiva del singolo insegnante. Tradotto in pratica: se un bambino si sente male non posso mandarlo a misurarsi la febbre; se un bambino non si sente bene non posso accompagnarlo in bagno, se vomita non si sa se c'è qualcuno per pulire; se io non mi sento bene non posso andare in bagno; non posso ricevere assistenti sociali, logopediste o psicologhe durante l'orario di lavoro... In sostanza non siamo in grado di gestire nessun imprevisto. Quello che mi viene chiesto è di essere la sorvegliante esclusiva (in alternanza con la collega) dei miei 25 bambini.
Per fortuna noi abbiamo in classe l'insegnante di sostegno per 12 ore a settimana, ma non tutti hanno questa fortuna.

Piccolo caso concreto: un mio alunno si è fatto male al ginocchio e non può fare le scale ma deve prendere l'ascensore. Noi stiamo in terzo piano, lui non può prendere l'ascensore se non accompagnato da un adulto, io non posso chiamare bidelli, io non posso lasciare da sola la classe.
In pratica ci sembra di vivere costantemente in quell'indovinello dove ti chiedono di portare dall'altra parte del fiume, in presenza di un lupo, la capra e i cavoli.
Forse da insegnanti vogliono trasformarci in pastori?

martedì 10 aprile 2012

Dal 10 al 6 in pochi mesi e dal 6 al 10 in 20 minuti

Mi sembrava impossibile scoprire l'acqua calda, mi sembrava impossibile che scoprire l'acqua calda fosse così facile e così terribilmente scioccante. Voglio raccontarvi una storia non per prendere il merito di un tanto inatteso quanto repentino risultato ma per ragionare, a contrario, sugli enormi danni distruttivi che si possono produrre con due semplici e terribili armi: non ascoltare e non osservare. 

Qualche giorno fa ho usato tre ore della mattinata per fare le interrogazioni di storia di tutta la classe, usando un sistema-gioco che vi spiegherò presto in un post a parte.
In classe ho molti bambini e bambine molto intelligenti, vivaci, curiosi. Uno di questi ultimamente si isola e ha cominciato, negli ultimi mesi, ad avere un notevole calo di rendimento. E' un po' che cerchiamo cause e soluzioni. Durante l'interrogazione rispondeva a mezze parole, non voleva parlare per paura di sbagliare... insomma un'interrogazione di quelle che di solito i prof, con metafora odontoiatrica, commentano così: "gli ho dovuto tirare fuori le cose con le pinze... un 6 stiracchiato" e pensano "non ha studiato". 
Anche per me il primo pensiero, quello che è arrivato subito in prima classe sul treno ad alta velocità fresco e riposato, è stato questo: "non ha studiato abbastanza" seguito da "forse non è seguito a casa" per concludere con "d'altro canto anche in classe è un bel po' che non sta attento". Fatta, passeggeri scesi alla stazione, tutto semplice tutto a suo posto, un 6- da scrivere sul registro, una piccola ramanzina "devistudiaredippiù".
Ma è arrivato, in ritardo, il passeggero della seconda classe del treno regionale, che è molto lento perché ferma in tutte le stazioncine, però ha avuto tempo per pensare. Bussa alla mia testa e insinua il dubbio: "Mi scusi se rovino la sua quiete e le sue certezze di docente, ma forse il suo alunno ha studiato ma non riesce a rispondere all'interrogazione. Non ha notato il suo sguardo terrorizzato e il sacco congiuntivale pieno e pronto a strabordare?" A quel punto il passeggero del treno ad alta velocità, con l'arroganza del suo dopobarba stucchevole e della sua 24ore in pelle, ha ribattuto "certo! ma è l'imbarazzo, il senso di colpa per non aver studiato! Ma cosa vuole lei? Non vede che ho altro da fare? Sono di fretta io! Sto lavorando! Non ho mica tempo da perdere come lei!"

Suona il campanello e mando tutti a far merenda, mi consolo con qualche piccolo dolcetto che ho comprato la mattina in panetteria. Ed ecco che il passeggero del treno regionale continua a farmi domande e a pungolarmi con dubbi. Mi alzo e accanto alla lavagna incrocio il bambino in questione che mi guarda, fermo, bloccato, con gli occhi umidi. "Che cosa c'è? vuoi parlarmi?", annuisce, usciamo dalla classe e ci allontaniamo in corridoio. Gli altri giocano e ci rispettano, sanno che quando mi allontano con qualcuno significa che abbiamo bisogno di parlare da soli. Mi racconta, facendo fatica a trattenere il pianto ma con molta lucidità, che lui è terrorizzato, che lui ha paura di quello che potrebbe succedere a casa. Già so che la famiglia gestisce il rapporto con lui in base a un complesso sistema ricompensa/punizione legato ai voti scolastici, già so che questo sistema non funziona, ma pensavo che al più fosse un sistema che non avesse alcun peso, che non portasse a nessun risultato. Grazie a lui ho cominciato a vedere che può, invece, portare a risultati disastrosi: in pochi mesi dal 9/10 al 6-.
Capito il problema avevo bisogno di una soluzione. Ho promesso che avremmo parlato con i genitori. Ma questa è una soluzione che ci mette parecchio tempo ad arrivare (dobbiamo riuscire a trovare un'ora nella quale far riunire 5 persone!) e dagli esiti incerti (riusciremo a far cambiare sistema ai genitori?). Avevo bisogno di una soluzione concreta, pratica, attuabile prima della sua uscita di scuola alle 16, prima che lui dovesse tornare a casa e dire "oggi l'interrogazione non è andata bene".
Il passeggero del treno ad alta velocità, già scocciato per non aver finito di mangiarsi i suoi dolcetti, "che diamine!" ha cominciato a protestare "ho bisogno anche io della ricreazione! e poi ho fame! e la pausa è piccola già così e poi subito si ricomincia con quei 25 scalmanati! adesso tagliamo corto! eh non sono mica lo psicologo io! e che cosa vogliono ancora da noi?! con i soldi che ci danno?! anche il supporto psicologico?!"
Ma il passeggero del regionale ha deciso di offrirgli un caffé al bar, e di farlo parlare dei suoi problemi e delle sue frustrazioni. Allontanandosi per portarlo via, mi ha detto sottovoce: "Tocca a te adesso, hai tempo di trovare una soluzione fino al campanello della fine della ricreazione. Intanto io porto via questo scalmanato".

Pochi minuti di tempo per trovare il sistema per far tornare, subito, il mio bambino dal 6- al 10. Subito.
Il discorso che ho fatto, senza più passeggeri per la testa, è stato più o meno questo:
"Senti, io ho capito il problema, ma adesso dobbiamo trovare una soluzione. E in questo momento siamo solo io e te, dobbiamo trovare una soluzione tra noi due. Io voglio che tu vada bene e abbia soddisfazione e tu vuoi andare bene e avere soddisfazione, quindi dobbiamo fare qualche cosa noi due per raggiungere questo risultato. Io posso solo dirti questo: il mio regalo è quello di spiegarvi storia e studiare con voi storia perché possiate capire e imparare, il regalo che tu puoi fare a me è farmi vedere che hai ascoltato e che hai imparato. Questo è il regalo che puoi farmi: farmi vedere che le lezioni non sono stati inutili ma che tu hai capito e imparato. Proviamo a fare così, prova a farlo per fare un regalo a me. Ti va bene?"

Sì ho detto così, ho detto qualche cosa come "fallo per me", roba che ha fatto impallidire persino il passeggero del regionale e svenire il passeggero del treno ad alta velocità, di ritorno dal bar. Roba da romanzo dell'Ottocento, roba da lacrime, roba da Librocuore, roba da biofrikkettoni in armonia con il cosmo. Me ne sono vergognata subito e quasi pentita, pensavo che non è giusto, che non posso, non devo mettere le cose su un piano così personale, che non posso, non devo mai mettermi in un ruolo di alternativa alla famiglia... Ma è stata l'unica idea che ho avuto in quel momento, senza passeggeri per la testa.

Dopo la ricreazione abbiamo continuato con le interrogazioni. Ultimi interrogati quelli del gruppetto "si sono mangiati la lingua" cioè quelli che sanno le cose ma sono molto imbarazzati dalla situazione interrogazione. Ho chiesto al bambino in questione se voleva aspettare la prossima settimana per rifare l'interrogazione oppure far parte subito del gruppetto "ci siamo mangiati la lingua" e ha deciso, con allegria, di venire subito.
Sapeva tutto, lo sapeva spiegare bene, ricordava con entusiasmo e parlava con voce forte e chiara rivolto non a me ma ai compagni, come in una conferenza. Sapeva anche rispondere a tutte le domande degli altri e alzava la mano dal posto. 
Quando, fissandomi con i suoi occhi allegri, mi ha detto "grazie maestra!" ho dovuto distogliere lo sguardo perché avrei pianto. Mentre, di spalle, tornava al posto gli ho detto solo "Grazie a te per essere tornato tra noi. Sono proprio contenta!" 

Ancora non so se ho fatto un errore madornale o ho avuto una buona idea e non mi faccio illusioni. Il problema c'è ancora, lui avrà ancora paura e io dovrò ancora lottare contro i passeggeri dei treni che si scontrano nella mia testa. 
Ma per un giorno abbiamo avuto la sensazione di poter fare assieme qualche cosa di meraviglioso. Solo parlando.

venerdì 6 aprile 2012

A proposito di me (2): tutta la verità su me e la scuola

Per fortuna è arrivato Daniel Pennac a spiegarci, in Come un romanzo, che per essere bravi insegnanti non serve essere stati bravi studenti, anzi a volte è vero il contrario. Uno studente che ha provato nella sua carriera scolastica qualche difficoltà sarà più svelto nel comprendere le possibili difficoltà dei suoi alunni. Così per Pennac: pessimo studente, ottimo insegnante e (addirittura!) scrittore di fama.
Posso quindi non provare vergogna se vi parlo della mia bislacca carriera scolastica.

Ho frequentato la scuola materna senza troppi patemi, pare che le maestre si lamentassero della mia lentezza nel fare le cose. Io di quella prima parte della mia vita ricordo solo che ero timida in pubblico, chiacchierona e preda di noie incolmabili in privato.
Un ricordo traumatico degli anni dell'asilo: un giorno ho "morsicato" il petto di una mia compagna e sono finita dalla "diligente", come raccontavo ai parenti. Si trattava di una storia di posti per giocare nella casetta, la compagna mi aveva rubato il posto e per tutta risposta alle mie rimostranze mi aveva "spiegato le dita". Devo aver considerato questo comportamento un affronto gravissimo se, da bambina mite quale ero, mi sono trasformata in cannibale!

Alle elementari continuavo ad essere lenta, timida e incline alla noia, ma credo meno chiacchierona. Probabilmente una di quelle bambine che in classe semplicemente scompaiono: non danno problemi e non si fanno notare.
Ci sono stati alcuni episodi che sono entrati nel catalogo dei memorabilia familiari. Il primo di questi episodi è addirittura scientificamente documentato: presi dalla disperazione i miei genitori avevano registrato su nastro le interminabili lamentele alle quali li sottoponevo quando dovevo imparare a scrivere: "Ma faccio fatiiiiicaaaa!! Ma mi fa male la mano!! Ma devo premere troppo!!" sono le frasi registrate a perenne memoria. Io ricordo distintamente la sensazione della fatica fisica dello scrivere: la mano serrata attorno alla matita e contemporaneamente la pressione sul foglio (naturalmente incidevo invece di scrivere) che impegnava tutto il braccio. Una fatica fisica dello scrivere che provo ancora oggi, sia a mano (mi sono procurata calli all'indice e al medio) sia al computer (sono finita dalla fisioterapista per un'ipocondilite).
Con lo sguardo dell'adulto posso dire che o mi stancavo molto facilmente o ero molto pigra. Ricordo anche, a proposito della fatica di quel periodo, che ero molto piccola e magra e facevo un'enorme fatica a fare qualsiasi sport. 
Con ottime e condivisibili motivazioni i miei genitori mi avevano iscritta alla piscina. Ricordo ancora il soffitto della piscina nel quale tentavo di visualizzare, tra un'annaspata e un'altra (il dorso proprio non riuscivo ad impararlo!), il piatto di semolino cotto nel latte che mi era stato promesso al mio rientro a casa.
Anche per le elementari ho un ricordo traumatico: il banco verde inondato dalle mie lacrime con un vero e proprio laghetto. Ricordo che il fatto di essere capace di produrre una così grande quantità di liquido piangendo aggiungeva alla disperazione una sfumatura di meraviglia. Piangevo perché ero stata sgridata molto duramente dalla maestra che mi aveva sentita dire sottovoce a una compagna "La maestra è matta". Pensavo che fosse impazzita perché anziché farci cambiare nello spogliatoio della palestra, come sempre, voleva farci cambiare in classe. Mi sembrava una cosa fuori di testa, come se avesse detto "Oggi fate la pipì sul tavolo". Naturalmente avrà avuto le sue ragioni, che non mi ha esplicitato, ma la sgridata è stata epica.
Dal punto di vista didattico non ricordo nulla delle elementari, se non la soddisfazione che provavo nel capire molto presto, prima degli altri, come si doveva fare per risolvere un problema di matematica. Volevo essere la  prima a capire come si risolvevano i problemi, ma ero al fotofinish con un'altra bambina: Barbara. Questa mia gara interna mi prendeva al tal punto che ci avevo inventato una canzoncina che mi cantavo solo nella testa. In realtà si trattava della canzoncina che papà mi cantava per svegliarmi la mattina: "Cappuccettinaaa, svegliati ch'è già mattinaaa / Cappuccettinaaa, svegliati ch'è già mattina!" alla quale avevo aggiunto una seconda strofa mentale: "Tu vuoi essere prima a scuola/ ma seconda arriverai/ sempre Barbara prima sarà". Tutto questo arrivismo scolastico si focalizzava esclusivamente sul ragionamento per la procedura per risolvere i problemi di matematica. Arrivismo scolastico che è definitivamente terminato con la fine delle elementari.
Sono uscita dalle elementari con bellissime pagelle che venivano telefonicamente trasmesse ai parenti di mezza  Italia.

La scuola media è stata un periodo di limbo stranissimo: improvvisamente sembravo non essere brillante in nulla, anzi in alcune materie ero seriamente in difficoltà. Non riuscivo a fare in maniera presentabile il disegno tecnico, avevo 5 in inglese e voti appena accettabili in geografia. Mi tenevo su con l'italiano e il flauto. Assieme a uno sparutissimo gruppetto di compagni ero in grado di suonare il flauto con qualche soddisfazione, scoperta che mi ha portata a chiedere di seguire lezioni di pianoforte per circa due anni.
Anche per le scuole medie ho due ricordi traumatici. Il primo riguarda l'inglese. Con molta motivazione mi ero messa ad ascoltare la cassetta allegata al nostro libro di testo. Come spesso accade il libro di lingua straniera ha un personaggio principale del quale "you are supposed to be a friend". Questo personaggio si chiamava Bob. Nella prima verifica di inglese alla domanda "What's your name?" ho risposto "My name is Bob". Dalla presunta amicizia ero passata all'identificazione. Naturalmente la cosa aveva suscitato l'indignazione del mio prof. di inglese, che mi aveva sgridata lungamente credendomi una mezza idiota. Già allora, con la verifica in mano davanti all'altissimo prof abbigliato in stile Fonzie, avevo capito che il problema era che avevo confuso "your" con "his". Oggi posso dire che quando il prof parlava di pronomi e di altre categorie grammaticali erano tutti concetti che, molto semplicemente, io non avevo mai sentito neppure per l'italiano. A questo c'è una spiegazione storico-politica-scientifica, della quale vi renderò conto in un altro post, da dedicare solo al mio rapporto con la grammatica.
Il secondo trauma delle medie è stato all'esame finale. Ho pianto! Ho pianto perché pensavo che i miei compagni stessero ridendo di come stavo suonando il flauto, quindi sono andata in crisi totale.

Finite le medie ho scelto il liceo classico con la seguente seria motivazione: mi piaceva leggere e scrivere, non sapevo disegnare. E mal me ne incolse.
Il primo anno, la quarta ginnasio come ci piaceva dire per distinguerci dal resto dei ragazzini brufolosi che frequentavano le superiori, è stato così traumatico che ve lo devo raccontare in un post a parte.