Succede questo: quando la scuola finisce, e resta solo la burocrazia, arriva una montagna invalicabile di stanchezza. Vuoi solo non fare niente e dormire, ma anche di fare niente e di dormire non hai voglia.
Durante l'anno giugno è un miraggio: il momento in cui mettere a posto la casa, selezionare i libri e riordinare le librerie, svuotare lo sgabuzzino, fare quelle visite mediche che hai rimandato per mesi. Poi giugno arriva e vorresti non fare neppure questo.
Ho visto al cinema The detachment. Sicuramente non mi ha fatto bene, ma è un film che va visto: tutta la buona volontà e l'impotenza di questo mestiere. Il prof. Barthes confessa una cosa fondamentale: alcuni di noi insegnanti lavorano convinti di poter fare la differenza. E' tutto qui il problema di questo mestiere: l'idea di poter fare qualcosa e l'enorme frustrazione davanti al fallimento.
Molto spesso mi sono sentita quella responsabilità, la responsabilità di poter fare la differenza nelle vite dei miei alunni. Esserci/ non esserci, guardarli/ non guardarli, ascoltarli/ non ascoltarli, parlare con loro/ non parlare con loro, parlare/ non parlare con i genitori. Ho cercato di fare in modo che a guidare le mie scelte fosse sempre il loro bene, il bene dei miei alunni. Naturalmente ho una mia idea del loro bene, e questo mi ha fatto commettere molti sbagli.
Qualcuno mi ha detto che si tratta di un delirio di onnipotenza: né io né i miei colleghi possiamo cambiare la vita di nessuno dei nostri allievi, i nostri allievi andranno dietro alle loro famiglie e se le loro famiglie forniscono esempi negativi noi non possiamo fare proprio nulla per sottrarli al loro destino. Se un giorno mi convincessi veramente di questo lascerei questo lavoro. Anzi, trovo addirittura che vivere al mondo con questa convinzione sia intollerabile. La mia idea è che potenzialmente tutti possono fare la differenza.
In una giornata grigia il barista che ti sorride e ti fa una battuta fa la differenza. La mattina andando al lavoro gli operatori ecologici che con un sorriso mi tolgono il sacchetto delle immondizie dalla mano fanno la differenza. Quel signore che da anni incontro mentre vado a scuola e che immagino essere un professore di musica che va in un'altra scuola da un'altra parte della città fa la differenza. Fa la differenza la segretaria che mi chiede come va con il mio stomaco. Fa la differenza il bidello che mi aiuta con le fotocopie. Fanno la differenza le colleghe che collaborano.
Fanno la differenza perché l'altra strada, quella dell'indifferenza, è veramente molto molto trafficata.
Non posso credere che i miei sforzi e le mie attenzioni debbano inevitabilmente cadere nel vuoto, come frecce lanciate sempre fuori dal bersaglio, devo credere che qualche cosa prima o poi vada a buon fine.
Il problema è che i fallimenti ci sono sempre e sono violentemente evidenti: il bambino ritirato da scuola, la bambina che ancora non vuole interessarsi a nulla, il bambino che ancora non crede in se stesso, la bambina che proprio non ha imparato. Ma come fare a vedere i successi? Quale di questi nostri allievi rivedremo tra vent'anni e ci racconterà come ha saputo tenersi in piedi nella vita?
Sono semi che noi piantiamo giorno dopo giorno, ma i frutti possiamo solo intuirli, immaginarli nei decenni a venire.
Forse per questo a fine anno alcuni di noi sono depressi.
Ci si volta in dietro e ci si chiede: che cosa ho fatto?
Probabilmente si guarda dalla parte sbagliata, la risposta è avanti.