martedì 29 maggio 2012

"Andate sotto i banchi".

Io la stavo guardando mentre lei pensava come rispondere alla domanda di storia. La sua compagna, anche lei in piedi alla lavagna, intanto pensava a come avrebbe risposto alla domanda successiva. 
Sento tintinnare le finestre. Guardo la collega di sostegno. "E' il terremoto" ci diciamo.
Allora pronuncio quella frase che ci hanno insegnato a dire: "Andate sotto i banchi". La ripeto credo due volte, senza gridare, senza segnali di allarme nella mia voce. Almeno così mi sembra. Ci vanno, sotto i banchi.
E io mi infilo sotto la cattedra. Scopro che la cattedra ha una fessura, dalla quale posso vedere i bambini. Mai notata questa fessura, ma è utile. Mi sembra quella che si vede nei bunker tedeschi sulle coste della Normandia. Ho questa immagine stupida in testa. "Il giorno più lungo": il tedesco da solo che guarda il mare e vede lo sbarco. Io guardo la classe e vedo i bambini accovacciati sotto i banchi. Mi sembrano tranquilli. Dico di fare silenzio perché ho bisogno che tutti mi sentano, dico di restare sotto i banchi perché non sappiamo se ci saranno altre scosse. Loro parlano un po', ma nessuno piange, nessuno si dispera.
Una collega mi chiama dal corridoio per cognome e dice "Il terremoto!"
Deve essere stato buffo lo spettacolo che ha visto: una classe tutta sdraiata a terra e una maestra invisibile (o una cattedra parlante).
Sotto la cattedra ho avuto paura. La paura della mia responsabilità: se viene una scossa più forte, se questa scuola, che ha più di cento anni e una scarsissima manutenzione, cade a pezzi io devo portare in salvo questi 25 bambini. Sei rampe di scale. Siamo all'ultimo piano. Mio figlio sta in piano terra. Mia madre per fortuna ancora a casa. A casa è meglio che a scuola. Qualsiasi posto è più sicuro della scuola. Se dobbiamo restare ancora qua sotto dico ai bambini di unire i banchi, spostandoli da sotto, così creiamo una testuggine romana, dei corridoi dove si può passare. Un'altra immagine stupida. Da Asterix, questa volta penso ad Asterix: la testuggine di legionari con i loro scudi azzurri. I banchi come scudi. Vedo che la collega (è alta) è mezza fuori dal banchetto sotto al quale si è messa assieme a un bambino. Sembra un gattino accovacciato. Un gattino che vuole giocare a nascondino ma non sa di essere visto.  Penso che c'è un'altra cattedra nella classe, che lei dovrebbe stare sotto l'altra cattedra. Chiedo ai bambini di fare silenzio. Ma non grido. Non hanno capito, non sanno se è un'esercitazione o c'è qualche cosa che non va. Veramente.
Suona il campanello in quel modo che significa "uscite di scuola". 
In fila, in fila, andate in fila. Attaccatevi alla spalla del compagno. Mi ricordo il registro rosso. Non so perché ma guardo anche il registro verde, quello personale. Ma poi penso chissenefrega del registro dei voti, aperto per le interrogazioni di storia. Prendo la borsa: c'è il telefono.
Si mettono in fila ma lei, lei che viene da l'Aquila, si prende la giacca. Forse lei sa che può essere che esci e non sai se torni. Non le dico nulla. Le procedure dicono "non prendere niente". Ma penso che lei può prendere la sua giacca. So che lui ha male al ginocchio, so che lui fa le scale pianissimo. Lui si mette sempre ultimo. E resta sempre in fondo. Questa volta no, ci sono altri bambini dietro di lui che lo stimolano ad andare giù per le scale. E scende al ritmo degli altri. Un po' zoppica ma va. Per fortuna.
Sei rampe di scale piene di bambini. Siamo 500 a scuola, su tre scalinate. Sotto di me forse ci sono 150 bambini. Sono rumorosi ma scendono.
Arriviamo in cortile. Guardiamo le facce delle colleghe. Quelle del piano terra pensano davvero che si tratti di un'esercitazione o lo dicono solo per non spaventare i bambini di prima?
La mia collega ha le gambe molli: lei viene dal Friuli.
Passa il Preside. Possiamo rientrare. Il responsabile della sicurezza ha sentito i vigili: il terremoto non è qui da noi.
Non ho voglia di riportarli dentro. Ho sul fondo, come un retrogusto, questa idea della scuola come luogo non sicuro. Ma sono entrati già tutti, siamo gli ultimi. Faccio un discorsetto lì fuori sotto gli alberi. Spiego che in queste situazioni bisogna essere molto seri e svegli, pronti ad ascoltare quello che dice la maestra.
Torniamo su. Le due bambine si mettono in posizione alla lavagna per l'interrogazione di storia. 
Mi fa venire la nausea questa routine scolastica. Guardo la collega, che cosa ci importa delle interrogazioni di storia? Parliamo un po' di quello che è successo? E' il nostro primo terremoto a scuola!
Decidiamo di parlare un po'. E' meglio tirare fuori le paure, penso, anche se piccole. Abituarsi a parlarne. La maestra racconta del terremoto del Friuli, del corridoio che si muoveva, del papà che l'aveva svegliata; la bambina racconta del terremoto de l'Aquila, del papà che l'ha presa in braccio, del trovarsi tutti in macchina in pigiama, della casa crollata, del papà che piange davanti alla TV rotta, del trasloco da Sud a Nord. E' allegra, quasi divertita. "Mi è crollata la casa!" dice, e intanto alza le spalle. Un'altra bambina racconta di una tromba d'aria in campeggio, di come si sono rifugiati nei bagni, dell'albero caduto sulla tenda (vuota) dei cuginetti. Qualcuno chiede quando facciamo le interrogazioni di storia. Una bambina mi viene a dire che lei vuole essere interrogata oggi. Suona il campanello e ci guardiamo un attimo per decidere se è un campanello normale oppure no. Sì, è il campanello della ricreazione.
Si gioca, si mangia. Risuona il campanello.
E poi si fanno le interrogazioni di storia. Più insicuri di prima.
Attorno alle 13 la scuola trema un'altra volta, ma è l'ora dell'uscita per alcuni, della mensa per altri, solo qualche maestra l'ha sentito.

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